
La calciatrice Shaheen e la rabbia degli atleti israeliani agli eventi sportivi - ©ANSA Photo
Quando si parla di sport, spesso si tende a pensare a momenti di gioia e competizioni leali. Tuttavia, per Natali Shaheen, la prima calciatrice palestinese a giocare in Italia, il mondo dello sport è intriso di ingiustizia e rabbia. Durante un intervento a Firenze, nel convegno “Lo sport come strumento di pace”, Shaheen ha condiviso il suo punto di vista sulla situazione in Palestina e sul trattamento degli atleti israeliani negli eventi sportivi internazionali.
“Quando vedo che gli atleti israeliani partecipano alle manifestazioni sportive, provo rabbia e ingiustizia. In Israele non c’è solo una guerra, ma un genocidio in corso e nessuno riesce a fermarlo”, ha dichiarato Shaheen. Le sue parole riflettono la frustrazione di molti palestinesi, che si sentono marginalizzati in una narrazione sportiva che ignora la loro sofferenza. “Tuttavia, loro possono partecipare agli eventi senza difficoltà, come se fosse un paese normale”, ha continuato.
la commemorazione delle vittime
Un aspetto che ha suscitato particolare indignazione in Shaheen è il modo in cui si commemorano le vittime. “Nelle partite vedo che viene osservato un minuto di silenzio per le vittime israeliane, ma a Gaza ci sono 50.000 morti“, ha affermato. Questo confronto evidenzia una disparità che contribuisce a far sentire i palestinesi invisibili nel panorama sportivo globale. “Si vede che noi palestinesi non contiamo niente”, ha aggiunto.
le sfide degli atleti palestinesi
La storia di Natali Shaheen è emblematiche delle difficoltà che gli atleti palestinesi affrontano. Originaria di Gerico, ha raccontato le sfide legate al giocare a calcio in Palestina, dove le restrizioni di movimento e le condizioni di vita sono complicate da una situazione politica instabile.
- Difficoltà di spostamento: “Spostarsi tra città e città è difficile, a causa dei posti di blocco che sono stati messi da Israele”, ha spiegato.
- Pianificazione anticipata: “Io sono nata a Gerico ma giocavo a Ramallah: nel tragitto tra casa e il campo sportivo ci sono due check point che gli israeliani chiudono quando vogliono.”
- Ritardi e imprevisti: Shaheen ha raccontato di come, per arrivare agli allenamenti, fosse costretta a partire da casa quattro ore prima. “Nonostante questo, tante volte non sono riuscita ad arrivare in tempo agli allenamenti, mentre altre volte ho dovuto dormire a casa dei miei compagni perché la strada nel frattempo era stata chiusa.”
Queste esperienze non solo mettono in luce le difficoltà logistiche, ma anche il costo emotivo e psicologico che gli atleti devono affrontare quotidianamente.
una nuova vita in sardegna
Vivendo ora in Sardegna e giocando per il Real Sun Service, Shaheen ha trovato un nuovo inizio, ma la sua mente e il suo cuore rimangono ancorati alla sua terra natale. La sua speranza è che un giorno le guerre finiscano e che si possa vivere in pace, senza divisioni. La sua voce diventa così un simbolo di lotta e resilienza, non solo per gli sportivi palestinesi, ma per tutti coloro che soffrono a causa di conflitti e divisioni.
In un contesto più ampio, la situazione di Shaheen e degli atleti palestinesi solleva interrogativi sulle responsabilità etiche e morali del mondo sportivo globale. Come possono le organizzazioni sportive internazionali garantire eventi sportivi inclusivi e rappresentativi di tutte le voci? Qual è il ruolo dello sport nella promozione della pace e della comprensione tra i popoli, specialmente in contesti di conflitto?
Le parole di Shaheen ci invitano a riflettere su queste domande e a considerare come lo sport possa essere un veicolo per il cambiamento, ma anche un riflesso delle ingiustizie sociali e politiche. La sua storia è un richiamo a non dimenticare le vite e le esperienze di chi vive in condizioni di oppressione e a lavorare verso un dialogo che possa, eventualmente, portare a una vera pace.
Il messaggio di Shaheen non è solo una denuncia, ma anche una chiamata all’azione. La sua presenza nel mondo del calcio, pur tra mille difficoltà, dimostra che la passione per lo sport può superare confini e barriere, fungendo da ponte tra culture e storie diverse. La speranza di una pace duratura è un sogno condiviso da molti, e lo sport potrebbe rappresentare un modo per avvicinarsi a quel traguardo, se solo si decidesse di ascoltare le voci di tutti, senza distinzione.